Il bisturi folle

Fotografia di una lobotomia

Di Battistin Anna Maria, Corriere della Sera, 14 febbraio 1994.

Tra i crimini perpetrati in nome della scienza c' e' sicuramente la lobotomia, l' intervento sul cervello introdotto negli anni Trenta per "curare" chirurgicamente i malati di mente. Ora un libro denuncia ricostruisce questa storia. Nonostante le denunce di illustri specialisti contro i danni della "psicochirurgia", questa pratica fu abbandonata soltanto dopo alcuni decenni, quando apparvero sulla scena gli psicofarmaci.

L' INTERVENTO MADE IN ITALY- In Italia la lobotomia fu adottata a velocità' record, prima ancora che negli Stati Uniti. Nel ' 37 Emilio Rizzati, dell'ospedale psichiatrico di Racconigi, nei pressi di Torino, aveva già' al suo attivo oltre 200 lobotomie. Ma fu molto cauto, nell'illustrarne i risultati. "Solo il 15 per cento dei pazienti sembra aver tratto giovamento dall'intervento" dichiaro' , aggiungendo inoltre che era difficile sapere se fosse stata proprio la lobotomia a produrre il miglioramento, dato che i pazienti venivano sottoposti anche ad altre terapie, come il coma insulinico e l' elettrochoc. Fra i "perfezionisti" della psicochirurgia in Italia, uno dei più celebri fu Amarro Fiamberti, neuropsichiatra di Varese, che nel luglio ' 37 mise a punto una tecnica "molto più semplice e rapida" di quella di Moniz, che consentiva di penetrare attraverso l' osso orbitario fino all'estremità del centro ovale dell'encefalo, obiettivo fino allora mai raggiunto. Fu questo uno dei primi esperimenti di "leucotomia prefrontale transorbitaria", una tecnica ancora più raccapricciante, che sembrava pero' produrre meno danni. E che fu poi adottata con ulteriori perfezionamenti dagli stessi Freeman e Watts. La psicochirurgia nel nostro Paese fu soggetta a pochissime critiche. E a plausi incondizionati anche da parte di giovani psicologi: come Antonio Miotto, che nel 1950 fece un reportage "dal vivo", assistendo a un intervento nell' "ospedale modello" di Varese. "Fiamberti infila l' ago guida al di sopra del globo oculare... Viene ora introdotto lo strumento tagliente... Il chirurgo ruota la lama e incide circolarmente... Una seconda incisione... Si passa quindi all' altro occhio e anche qui, in due tempi, nuovi sei tagli nella massa dei lobi prefrontali. L' operazione e' finita".

ATTACCO AL LOBO - Nel disegno qui a destra in alto e' raffigurato schematicamente l' intervento eseguito dall' "inventore" della lobotomia, il neurologo portoghese Egas Moniz. Lo strumento, denominato "leucotomo" veniva inserito in entrambi gli emisferi cerebrali secondo date angolazioni e profondità , in modo da raggiungere più' zone. Una volta all'interno del cervello, dallo strumento veniva estroflessa un' ansa, una lama circolare, poi ruotata in modo da distruggere le aree prescelte. Nella parte sinistra del cervello sono evidenziate le zone che venivano danneggiate in seguito all'intervento.

LA VIOLENZA DELLA PSICHIATRIA - Quando Alberto Madeddu, decano della psichiatria italiana, divenne direttore dell'Ospedale "Antonini" di Limbiate, a Milano, erano gli Anni ' 80 e la lobotomia era stata da poco messa al bando, almeno nelle istituzioni pubbliche. Ma nell'arco della sua lunga pratica ospedaliera, Madeddu era stato testimone della sempre più ampia applicazione della psicochirurgia in Italia: al punto da essere utilizzata anche con i tossicodipendenti. Gli aspetti più devastanti di questa "violenza psichiatrica" furono documentati da un'indagine retrospettiva che Madeddu svolse, nel ' 77, su 50 lobotomizzati. "In Italia si praticava soprattutto la leucotomia transorbitaria", dice Madeddu. "Attraverso il cavo oculare il chirurgo entrava con un bisturi molto affilato . il leucotomo . nel cervello, spezzando le fibre nervose, di associazione, dei lobi frontali. Si distruggeva cosi' il centro dei processi associativi, ideativi, emotivi e della memoria. Dopo l' intervento si registrava spesso uno stato di calma, una diminuzione delle pulsioni aggressive. Ma, seguendo i pazienti nel tempo, si e' constatato un impoverimento della personalità e uno scadimento della vita emotiva che portava i malati ai limiti di una vita vegetativa". Per quale motivo questa pratica, priva di reali basi scientifiche, ha potuto protrarsi cosi' a lungo? "Ancora oggi non si conoscono perfettamente le origini della malattia mentale. Di qui l' estrema difficoltà di un approccio scientifico. C' e' sempre stato il tentativo di localizzare nella sfera biologica il "germe" della follia". Perchè tanta violenza contro i malati? "Nei manicomi e' quasi sempre mancato un rapporto umano col malato, un atteggiamento di comprensione della follia. Questo scatenava la violenza dei pazienti, alla quale la psichiatria rispondeva con altrettanta e forse maggiore aggressività ".

Battistin Anna Maria

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(14 febbraio 1994) - Corriere della Sera